Domani
si voterà finalmente sulla riforma costituzionale proposta dal governo Renzi.
Si è trattato di un tema fortemente dibattuto negli ultimi mesi per lo
più in termini poco chiari per via della sua estrema politicizzazione (in senso
di identificazione partitica, di corrente o di singoli personaggi influenti) e
a causa della frequente manipolazione dei contenuti dovuta all’uso spregiudicato
di considerazioni contingenti e di contesto completamente fuori tema.
Il
secondo aspetto, in particolare, ha reso il dibattito
particolarmente squallido, vilipeso nei suoi contenuti ultimi e banalizzato da
fiumi di paure, minacce, insulti in un’atmosfera da fine dei tempi cui ormai,
dopo le vicende della Brexit Britannica e dell’elezione di Trump, siamo ormai
tristemente abituati.
L’identificazione
che il Presidente del Consiglio Renzi ha voluto sin dall’inizio tra la riforma
e il giudizio sull’operato del suo governo (la cui prova lampante è l’unione in
un unico quesito di questioni molto diverse) ha prodotto quindi una catena di
conseguenze nefaste che hanno gravemente inficiato la serietà del dibattito e
la chiara comunicazione dei suoi contenuti.
D’altra
parte ritengo che il nobile sforzo di tenere scisso il piano del contenuto della
riforma costituzionale dal giudizio complessivo sul governo sia ormai inevitabilmente
destinato a fallire dal momento che la questione è stata posta fin dal principio
su un piano di voluta e ricercata confusione tra i due livelli. Credo quindi
che sia opportuno, in un contesto ormai inquinato ad arte con esplicita malizia
e a tratti usando argomentazione al limite del surreale, cercare un giusto
bilanciamento tra la prioritaria analisi dei contenuti e qualche considerazione
più generale sul governo Renzi e gli effetti dell’esito referendario.
Darò
qui spazio, tuttavia, nella quasi totalità delle argomentazione, ai soli
contenuti della riforma, riservando solo pochissime battute finali agli aspetti
collaterali del contesto.
Premetto
che ho faticato molto a costruirmi un’idea coerente e definitiva sulla riforma
costituzionale, da cui discende questo intervento senza dubbio tardivo rispetto ai tempi di riflessione.
Fin dal principio del dibattito avevo colto alcune delle
negatività generali dello spirito delle modifiche proposte ma ho impiegato
molto tempo per capire in modo definitivo alcuni meccanismi concreti da cui
esse dipendevano. Ringrazio per questo tutte le persone con cui ho avuto modo
di dibattere che hanno arricchito la mia capacità di giudizio a partire da
alcuni meccanismi giuridici non immediatamente comprensibili.
La
riforma investe aspetti molto diversi e purtroppo il quesito referendario è
unico. Si tratta di una circostanza a mio avviso molto grave che ha reso il
dibattito molto più confuso di quanto sarebbe potuto essere se le questioni
fossero state trattate separatamente. Perché di questioni separate si tratta
anche se ideologicamente presentate come pezzi di un unico sforzo legislativo
teso alla semplificazione, alla governabilità e al risparmio (i tre mantra
ideologici dei propugnatori della riforma).
Il
primo aspetto toccato, il più discusso sicuramente, è la trasformazione del
senato della Repubblica.
La
riforma, come noto, prevede che il Senato si trasformi in una sorta di camera
delle autonomie territoriali non più eletto direttamente dal popolo, ma scelto,
con modalità al momento non specificate, dai consiglieri regionali.
Quand’anche,
tramite legge ordinaria, dovesse essere successivamente prevista una scelta
diretta sulla scheda elettorale al momento delle elezioni regionali, le
criticità del nuovo senato rimarrebbero fortissime. Mi sembra che siano almeno
cinque: in primo luogo la confusione di ruoli tra consiglieri regionali o
sindaci e senatori della repubblica che comporterebbe con altissime probabilità
serie difficoltà nell’onorare con pari dignità e dedizione due compiti così
complessi e diversi. In secondo luogo la mancanza di un vincolo di mandato da
parte del consiglio regionale nei confronti del consigliere e-o sindaco destinato
a ricoprire il ruolo di senatore. Ovvero il senatore non andrebbe in alcun modo
a rappresentare in quanto tale le istanze dell’ente locale di provenienza,
circostanza da cui emerge una lampante contraddizione tra l’idea di un senato
dei territori e l’effettiva pratica di un senato che avrà tutt’altra funzione.
In terzo luogo, a conferma di questa contraddizione appena menzionata, le
funzioni assegnate al nuovo senato sono in parte riferite ad aspetti del tutto
estranei alla cura degli interessi territoriali: in particolare un generico
concorso alla funzione legislativa in quanto tale e il recepimento delle
normative europee (su questo aspetto torneremo più in là). In quarto luogo,
indipendentemente da come concretamente si realizzerà la modalità elettiva dei
senatori, la previsione dei 100 senatori totali divisi per regione in un numero
predeterminato renderà di fatto maggioritario il sistema di selezione in
particolare nelle regioni più piccole. Se infatti una Regione può esprimere al
massimo 2 senatori è evidente che essi debbano essere scelti in modo
proporzionale ai voti ottenuti da ciascuna forza politica alle elezioni
regionali. Su un numero di 2 verranno eletti al limite i 2 senatori che
rappresentano i primi due partiti rappresentati con una sistematica esclusione
degli altri partiti. In definitiva, indipendentemente dalle modalità elettive
ed indipendentemente dal sistema elettorale retrostante previsto per le
elezioni regionali, il senato verrebbe comunque eletto tramite un sistema
maggioritario (o quasi) di fatto con una grave perdita di proporzionalità della
rappresenta. E, cosa più grave, ciò continuerebbe ad essere vero
(costituzionalmente) anche se venisse modificata un domani la legge elettorale
in senso puramente proporzionale (sia la legge nazionale che quelle regionali).
Insomma si tratta di una costituzionalizzazione di un metodo elettivo
quasi-maggioritario. Un elemento di fortissima importanza.
E’
su questo punto che interviene il legame profondo tra la riforma costituzionale
e la legge elettorale e su questo vale la pena spendere qualche parola.
La
legge elettorale Italicum approvata nel Luglio di quest’anno, è una legge
ibrida, un proporzionale sulla carta, ma con fortissima correzione
maggioritaria. Al partito che dovesse prendere il 40% dei consensi andrebbe
infatti un premio di maggioranza che lo porterebbe al 54% dei parlamentari
eletti. In caso di non raggiungimento del 40% da parte di nessuna coalizione o
partito, la situazione diverrebbe ancor più lesiva della proporzionalità. Si
andrebbe infatti ad un ballottaggio tra le prime due formazioni e la vincente
otterrebbe il premio di maggioranza suddetto. Ragion per cui un partito o
coalizione che al primo turno abbia ottenuto ad esempio il 25% (soglia molto
realistica in un sistema pluripartitico) di consensi potrebbe ottenere in
parlamento il 54% dei deputati.
La
promessa di rivedere l’Italicum in caso di vittoria del SI alla riforma
costituzionale è quanto meno beffarda e suona come una tardiva moneta di
scambio per sopire i contrasti interni al Partito democratico. Ciò che è invece
chiara è la logica che accomuna l’Italicum e la riforma del senato, ovvero la
spinta verso un sistema globalmente maggioritario in cui si affievolisce la
rappresentanza fino a ridicolizzarla in nome della governabilità. Da
proporzionalista convinto non posso che vedere con grande pericolo il connubio
riforma costituzionale e legge elettorale che si andrebbe delineando
Rigettare
la riforma costituzionale da questo punto di vista è anche, indirettamente, un
chiaro segnale di disapprovazione della legge elettorale.
Infine,
in ultimo luogo, tornando alle competenze di cui il nuovo senato si dovrebbe
fare carico, non può passare inosservata la previsione di competenza in merito
alla traduzione delle direttive europee nella legislazione nazionale. Un senato
costituzionalmente rinchiuso in una logica maggioritaria (ripeto:
costituzionalmente e non in dipendenza da una legge elettorale modificabile a
maggioranza semplice), quindi di fatto ostaggio dei partiti più forti, viene
investito di una delle funzioni più critiche e sensibili di questi tempi: il
delicato rapporto tra leggi nazionali e ordinamento comunitario. I vincoli
espressi dai trattati europei dalla fine
degli anni ’80 in poi sono a mio avviso il problema più serio che abbiamo di
fronte a noi e che impedisce una seria ricostruzione di una pratica politica
emancipativa, che rimetta al centro della scena un differente modo di intendere
i rapporti di produzione, la distribuzione del reddito e in generale ogni
relazione sociale, economica e persino morale che investe concretamente la
nostra vita. Non penso quindi che sia casuale l’attribuzione di rilevanti
poteri ad una camera, come si prospetterebbe essere il nuovo senato, così
facilmente dominabile dai grandi partiti, così poco trasparente nella sua
eleggibilità, così facilmente manipolabile data la stratificazione dei ruoli
rivestita dai suoi protagonisti. E’ chiaramente un tentativo di accentuare il
carattere già terribilmente ovattato dei rapporti tra normativa comunitaria e
legge nazionale.
Questo
è il significato più profondo del termine governabilità ostentato dal governo e
dai fautori della riforma: l’accelerazione dell’approvazione di provvedimenti
impopolari di cui è bene che si sappia il meno possibile.
In
conclusione la parte della riforma relativa al nuovo Senato è negativa poiché il
nuovo Senato sarebbe composto da membri che rivestono cariche a mio avviso
incompatibili nella sostanza; questi ultimi sarebbero eletti in modo costituzionalmente maggioritario
escludendo a priori i partiti meno forti; le competenza sono in buona parte
incoerenti con l’idea espressa di camera delle autonomie territoriali e
investono il delicatissimo rapporto tra normativa comunitaria e ordinamento
nazionale; infine l’elezione avverrebbe presumibilmente in modo indiretto.
Ad
accentuare la tensione tra governabilità e rappresentanza e quindi tra governo
e parlamento a favore del primo, si inserisce un secondo punto di grande
rilievo, forse meno discusso nel dibattito pubblico: il voto a data certa. Si
prevedono tempi piuttosto stretti per la presa in esame di proposte di legge
governative ritenuta, a discrezione del governo parte irrinunciabile
dell’attuazione del proprio programma. Non sono in grado di entrare
strettamente nel merito dell’adeguatezza dei tempi di discussione di leggi
complesse, ma mi sembra chiaro che la previsione di tempi fortemente limitati
si inserisca nella volontà di accentuare il ruolo decisionista del governo a
scapito della discussione parlamentare. D’altra parte, come dimostra la prassi
legislativa, alcune leggi anche rilevanti sono state approvate in tempi
ragionevoli tutte le volte che il grado di condivisione era tale da renderne
l’iter più rapido. Dipende quindi dalla volontà del parlamento e dalla
convergenza o meno dei punti di vista variegati in esso rappresentati la
velocità di approvazione di una legge. Che possano esistere tempi massimi ampli
non mi pare di per sé negativo, ma quelli dettati dal voto a data certa mi
appaiono davvero molto ristretti in relazione alla complessità e importanza di
alcune materie. Si afferma che tale provvedimento è coerente con le parallele
disposizioni di limitazione della decretazione di urgenza. Tuttavia è lo stesso
tipo di strana coerenza di chi di fronte al dilagante numero di contratti
atipici da lavoro dipendente affermavano alla vigilia del Job act che per
risolvere la precarietà del lavoro occorreva scardinare le tutele del contratto
a tempo indeterminato. Insomma per risolvere un’anomalia, anziché eliminarla,
se ne normalizza la sostanza (in questo caso, addirittura la si
costituzionalizza), evitando in tal modo di doverne giustificare almeno sulla
carta i requisiti di eccezionalità.
Nel
complesso, quindi la parte rilevante di modifica dei rapporti tra governo e
parlamento, accelera il dominio del primo sul secondo sulla base della presunta
lentezza insostenibile della produzione legislativa italiana (smentita peraltro
dai dati oggettivi) sminuendo attraverso vie variegate (struttura e modalità
elettiva del senato, anche in relazione alla legge elettorale e voto a data
certa, il ruolo della graduale e
faticosa discussione parlamentare a favore del decisionismo di governo. Si
ignora così che il vero problema del nostro paese non è certo la governabilità,
ma proprio il deficit di rappresentanza e lo scollamento tra cittadino e
istituzioni.
Il
secondo tema rilevante della riforma costituzionale è la revisione del Titolo V.
Data la complessità notevole del tema, proverò
a richiamare l’essenziale.
In
linea di principio sposo una visione moderatamente centralista dello Stato e
ritengo ad esempio del tutto errata la riforma in senso regionalista del Titolo
V della Costituzione varata nel 2001 dal centro-sinistra. Ancor più deleterio è
qualsiasi tentativo di federalismo fiscale di cui si tentò un’elaborazione
sotto la forte spinta della Lega nord durante il governo Berlusconi nel 2009.
Regionalismi e federalismi in generale tendono a minare alcune basi stabili
dell’unità e della solidarietà nazionale accentuando i differenziali di
sviluppo, creando (il federalismo fiscale) meccanismi perversi di competizione
tra regioni che finiscono per produrre fenomeni di corsa al ribasso a favore di
un ridimensionamento dello Stato sociale e abbassamento della tassazione sui
fattori più mobile (grande capitale).
Naturalmente
non sono invece contrario a forme di avvicinamento del potere di tipo
territoriale sul piano amministrativo. Anzi ritengo al contrario che la
diffusione territoriale dei centri di potere debba essere estremamente
capillare. Così come penso che alcune competenze di carattere secondario
(organizzativo, culturale, di gestione del territorio, di alcune tipologie di
beni locali etc) possano essere proficuamente devolute.
La
logica filo-regionalista e filo-federalista intesa come devoluzione di
competenze rilevanti, invece, in un’ottica di spartizione competitiva del
potere centrale in potentati locali, che non condivido assolutamente, si è
iniziata ad affermare in tutta Europa in modo massiccio a partire dagli anni
’90 in perfetta concomitanza con l’ascesa di poteri sovranazionali, in
particolare con l’approvazione dei trattati europei. Il mito del “vicino è
bello” e del territorio come alternativa alla “troppo grande e dispersiva
nazione” è andato di pari passo con l’esplosione della critica della burocrazia
statale elefantiaca e con l’affermazione della ricchezza dei particolarismi.
In
quella fase storica (anni ’90 e 2000) la moda federalista ha avuto
oggettivamente "dal basso" una funzione del tutto complementare allo
svuotamento "dall’alto" della sovranità statale per via dell’adesione a trattati
sovranazionali fortemente vincolanti. L’orizzonte prospettato era quello di territori europei unificati in
un’ottica sovrastatale. Il grosso del potere in alto concentrato nelle
istituzioni tecnocratiche post-democratiche comunitarie e un residuo di potere
locale ideologicamente “vicino” concentrato nei territori. Nel mezzo uno Stato
sempre meno sovrano e capace di incidere sui processi economici.
Questo
schema sta cambiando nel corso degli ultimissimi anni per motivi del tutto
simili alle ragioni che lo avevano favorito fino a poco tempo fa. E proprio gli stessi sostenitori della svolta regionalista sono oggi i riformatori della ricentralizzazione. La ragione mi sembra relativamente semplice.
Se
le Regioni e in generale i poteri locali erano inizialmente viste come potere
innovatore in grado di accelerare l’alleggerimento della spesa pubblica statale
esautorando poco a poco l’ingombrante Stato novecentesco (obiettivo condiviso
dall’impostazione liberista sottesa ai trattati europei), in molti casi si sono
invece rivelate centri di resistenza a processi di riforma di politica
industriale e di politica infrastrutturale promossi dall’alto, dietro i quali
si situano interessi economici dei grandi gruppi industriali multinazionali e
interessi finanziari degli istituti bancari coinvolti nelle grandi opere (vedi ad esempio la TAV in val di Susa).
Qualcuno,
tra i contrari alla riforma, ha persino paventato un legame diretto esistente
tra la ricentralizzazione di alcune funzioni e i processi di privatizzazione
delle imprese pubbliche di livello locale che gestiscono servizi pubblici
essenziali come energia elettrica e acqua. Dopo molti approfondimenti il legame
tra i due fenomeni non mi sembra in verità così diretto. Sicuramente però la
modifica costituzionale è rilevante in merito alla decisione circa la
costruzione delle grandi infrastrutture sulle quali i poteri locali tenderanno
ad avere un potere sicuramente minore di prima.
D’altra
parte, anche in termini di decisioni di spesa pubblica locale, questa riforma
del Titolo V va letta in continuità con la modifica, già varata dal governo
Monti nel 2012, dell’articolo 119, quando venne esplicitamente previsto,
contestualmente alla revisione dell’articolo 81 della Costituzione in tema di
pareggio di bilancio, una previsione di equilibrio di bilancio anche per gli
enti locali. Ovvero impossibilità di spesa in deficit per tutti! Ricordo tra
l’altro che l’attuale riforma prevede sistemi premianti per le Regioni
cosiddette virtuose garantendo loro maggiori margini di autonomia decisionale
su questioni determinate. Naturalmente la virtù è il raggiunto pareggio di
bilancio già previsto dall’art 119.
Mi sembra, in sostanza, che la tendenza sia quella di ridimensionare fino ad
annullare la capacità decisionale di spesa e di politica industriale degli enti
locali dal momento che si sono rivelati i meno obbedienti al corso liberista
imposto negli ultimi anni.
La posta
in gioco, in termini di proprietà pubblica locale è ancora altissima. Se è vero
che il dettato testuale della riforma non sembra al momento condizionare i
profili proprietari delle imprese pubbliche locali, tuttavia è altrettanto vero
che si muove in una direzione di ricollocazione in chiave centralista di
competenze che influenzano i processi decisionali di politica industriale, in
particolare le grandi infrastrutture (spesso poco funzionali al benessere
collettivo) che tanta opposizione hanno suscitato sino ad oggi sui territori.
Per
concludere, trovo positiva l’eliminazione che la riforma propone di quella
linea grigia di materie concorrenti tra Stato e regioni che tanta confusione
decisionale ha comportato negli ultimi anni. Allo stesso modo, in linea di
principio, una ricentralizzazione delle competenze mi troverebbe
sostanzialmente favorevole in un diverso contesto. Tuttavia il nuovo corso
centralista non deve ingannare: non si tratta affatto di una rinnovata
propulsione dirigista di uno Stato deciso a coordinare in modo universale i
processi economici nazionali, ma della traslazione del decisionismo
sovranazionale e tecnocratico in modo sempre più acritico dall’alto al basso
senza alcun intralcio.
Insomma
una buona revisione in senso centralista del Titolo V che appoggerei
incondizionatamente dovrebbe coesistere con un presupposto completamente
antitetico a quello vigente: il rifiuto della cessione dei processi decisionali
ad un livello sopranazionale post-democratico qual è oggi l’Unione europea. Solo
in quel caso avrebbe senso discutere di competenze statali e competenze locali.
Dato invece lo stato di cose attuale, ogni ricollocazione del potere verso
l’alto tenderà a tradursi in una mera velocizzazione dell’applicazione della
cosiddetta governance sovra-nazionale.
Vi
sono altri aspetti della riforma di minore impatto sui quali sospendo il
giudizio poiché non sono riuscito ad averne un’idea chiara, come l’abolizione
del CNEL o le altre modifiche minori apportate ad altri aspetti istituzionali.
Per
concludere il ragionamento nel suo complesso, vengo all’aspetto più contingente
della riforma, quello attorno al quale si sono scatenati le peggiori nefandezze
comunicative da parte dei sostenitori del SI e che è stato a tratti malamente
cavalcato anche dai sostenitori del NO.
Il
voto, per la volontà di Renzi e del governo, è diventato un voto a favore o
contro il governo. Questo è di per sé molto grave. Se, in caso di diversi
contenuti, fossi stato favorevole alla riforma costituzionale, infatti, mi sarei
trovato in grave difficoltà di fronte alla personalizzazione del conflitto che
inevitabilmente (inutile negarlo) avrà conseguenze sulla forza dell’azione di
governo nel dopo referendum.
Avendo
un giudizio molto negativo dell’operato del governo Renzi mi trovo in una
situazione relativamente comoda di coincidenza tra contrarietà alla riforma e
aspetto politico del voto. Non credo sia un caso, poiché, come premesso
nell’incipit, lo spirito che anima la riforma mi sembra del tutto coerente con
i modi di agire e i contenuti dell’azione del governo in carica.
Decisionismo
ostentato, cultura del fare contro i lacci e lacciuoli della burocrazia,
innovazione, modernità, governance efficiente. Miti e ideologie di modi e
maniere che si applicano sul piano sostanziale a contenuti assolutamente
regressivi sul piano sociale segnati da riforme (lavoro, scuola in primis)
tutte protese a favorire la classe sociale dominante e a promuovere un’idea di
società lontana anni luce da quella che immagino come migliore, in perfetta e
logica continuità con le politiche che hanno animato i governi dal principio
degli anni ’90 (di centro sinistra e di centro-destra alla stessa maniera). Di questa
continuità dovrebbero essere consapevoli gli attuali critici del governo Renzi
(di destra, centro-destra e centro-sinistra) che oggi si scoprono anti-renziani
dopo aver appoggiato il lungo ciclo di provvedimenti che hanno stravolto il
nostro paese dagli anni ’90 ad oggi. Potrebbe essere questa la migliore occasione per rivedere una storia giudicata fino ad oggi con troppa clemenza nel migliore dei casi o totale accondiscendenza nel peggiore.
Ai motivi di contrarietà alla riforma, intriseci e politici-contingenti, si potrebbero anche aggiungere l’arroganza di una riforma costituzionale
imposta senza una larga maggioranza parlamentare, da parte di un governo
divenuto tale grazie ad una legge elettorale beffarda considerata incompatibile
con la stessa Costituzione. Ma si tratta di argomenti così noti da diventare
ripetitivi.
Un
ultimissimo aspetto va però indagato per una seria disamina dello scempio
comunicativo avvenuto negli ultimi mesi. Si tratta di un punto molto rilevante
per comprendere le dinamiche con cui agisce il sistema di potere per ottenere
consenso.
La
conclamata identificazione dell’esito della riforma con l’appoggio o meno al
governo o, ancor di più, alla stessa figura personale del Presidente del Consiglio
(o con me o contro di me) è già di per sé qualcosa di esecrabile e improprio dal momento che si sta parlando di una riforma di carattere costituzionale. E' tuttavia politicamente comprensibile che ciò avvenga.
Molto più esecrabile, anzi delinquenziale sul piano politico e culturale, è
la martellante propaganda nazionale e internazionale, così simile a quanto
avvenuto alla vigilia del voto per la Brexit nel Regno Unito, che ha dipinto
scenari apocalittici in associazione all’esito referendario condizionando gli
umori degli elettori, in particolare dei più vulnerabili e dei meno attrezzati
e informati. Lo spauracchio di un governo tecnico, del fallimento delle banche,
l’agitazione dello spettro dell’avanzata dei populismi (sfruttando anche la
vittoria negli USA di Trump) l’insistenza mediatica sull’inaffidabilità dei
personaggi più o meno grotteschi che condiscono la variopinta opposizione contro
Renzi, è stato qualcosa degno delle migliori strategie comunicative dei sistemi
totalitari. L’arma del ricatto psicologico e del terrorismo mediatico del
resto, negli attuali contesti occidentali è divenuta l’arma fondamentale del
consenso alternativa e ben più efficace nel lungo periodo del manganello. Ed è
quest’arma che fonda la strategia comunicativa alla base di ogni controriforma
spacciata come necessaria dai suoi proponenti.
Sono
almeno trent’anni che lo spaventoso ciclo di controriforme economiche e sociali
viene presentato come inevitabile per evitare scenari spaventosi e
apocalittici, spread, giudizio dei mercati e altre amenità completamente
inesistenti o, se esistenti, pienamente modificabili a loro volta dalla stessa
azione della politica sovrana.
Qualsiasi
persona che abbia a cuore la salute di un sistema di decisione democratica deve
provare a sottrarsi agli effetti di quest’arma micidiale e per quanto possibile
cercare di ragionare nel merito e nella verità di ogni cambiamento politico, riforma
o evento.
Torniamo
a discutere su ciò che è buono e ciò che è cattivo senza ascoltare le menzogne
assordanti di chi agita lo spettro dei cataclismi finanziari o del populismo
montante. L’alternativa è la morte della politica e l’abbraccio inconsapevole e
mortale alla spietata logica della governance tecnica, questa sì il vero totalitarismo
del presente che sta distruggendo il pluralismo e la capacità di pensare.
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